th1Giurisprudenza

Cass., Sez. 1, Sentenza n. 29211 del 2005, imp. Biagioni

data 16/06/2005

Sulla diffamazione militare tramite la redazione delle note caratteristiche.

La giurisdizione militare provvede alla tutela dei soggetti più deboli del procedimento, oltre che alla protezione dei beni e degli interessi della Amministrazione militare.


In tema di reato di diffamazione la sfera morale altrui può essere lesa sia con modalità direttamente ed oggettivamente aggressive del diritto all'apprezzamento e alla opinione altrui, sia con modalità che, oggettivamente non lesive, diventino tali per le forme in cui vengono estrinsecate.

A tale proposito non sono soltanto le espressioni scurrili ad essere diffamatorie, ma anche altre espressioni oggettivamente non vere e non obiettive che aggrediscono la sfera del decoro professionale ed addirittura anche mere allusioni subdole.


 

Sez. 1, Sentenza n. 29211 del 2005

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
 
SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. FAZZIOLI Edoardo - Presidente - del 16/06/2005
Dott. CHIEFFI Severo - Consigliere - SENTENZA
Dott. SILVESTRI Giovanni - Consigliere - N. 749
Dott. GRANERO Francantonio - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. CORRADINI Grazia - Consigliere - N. 012267/2005
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1)
 BIAGIONI GIOVANNI N. IL 19/11/1948;
avverso SENTENZA del 01/02/2005 CORTE MILITARE APPELLO di ROMA;
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. CORRADINI GRAZIA;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. GARINO Vittorio che ha concluso per l'annullamento senza rinvio perché il fatto non sussiste.
Udito il difensore avv. ROMEO che ha chiesto l'accoglimento del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza in data 3.12.2003 il Tribunale Militare di Padova dichiarò il Maresciallo dei Carabinieri Biagioni
 Giovanni responsabile del reato di diffamazione militare aggravata, ai sensi degli artt. 227, commi 1 e 2, e 47 n. 2 del codice penale militare di pace, perché, nel redigere il rapporto informativo relativo al militare dipendente Barba Pasquale Lino, addetto al NAS di Treviso, per il periodo dall'11 febbraio al 27 aprile 2000, scriveva che lo stesso era "partigiano, aggressivo, fiacco, con scarsa fiducia in se stesso, ambiguo, con scarsa iniziativa, indeciso non convincente, ossequioso verso i superiori..... altezzoso con gli inferiori", con le aggravanti di essere militare rivestito di un grado e di avere commesso il fatto in atto pubblico e, concesse le attenuanti generiche, lo condannò alla pena di quattro mesi di reclusione militare con i benefici della sospensione condizionale e della non menzione.
Il Tribunale Militare ritenne che il Maresciallo Biagioni
, nel
redigere la scheda valutativa del Barba, pur avendo il diritto di elencare i dati, da lui ritenuti negativi, della personalità del sottoposto, fosse peraltro nel caso specifico venuto meno ai propri doveri, volendo dare del Maresciallo Barba una immagine strumentalmente falsa, in totale dispregio dei dati in suo possesso che avrebbero dovuto condurre a diverso risultato, posto che il Maresciallo Barba aveva sempre avuto la qualifica di eccellente, anche da parte del maresciallo Biagioni 
per periodi precedenti, senza che nulla fosse allo stesso addebitabile con riguardo al periodo in contestazione, tanto che il primo revisore, Colonnello Maiella, aveva respinto la valutazione del Biagioni restituendo al Barba la qualifica di eccellente.
Il Tribunale Militare respinse nel contempo la tesi difensiva per cui il giudizio negativo sul Barba fosse addebitabile ad un calo di rendimento dello stesso e degli altri militari addetti al NAS di Treviso nel periodo in contestazione, con particolare riguardo ad un sequestro eseguito presso la ditta Cattel, che, ad avviso dei superiori, era stato al contrario gestito con alta professionalità, seguendo le direttive del proprio superiore e della autorità giudiziaria, mentre invece addebitò il rapporto negativo nei confronti del Barba alla situazione che si era creata, proprio in quel periodo, all'interno del NAS di Treviso a causa dei comportamenti "pressanti" del Biagioni
 che, a seguito di una segnalazione da parte dei Marescialli Barba, Gnomi e Manzocco, era stato oggetto di una sanzione disciplinare per omessa segnalazione di un incidente stradale occorso con un mezzo della amministrazione e di una denuncia penale per avere dato uno schiaffo al Maresciallo Gnomi. Quanto all'elemento materiale del reato di diffamazione militare, il Tribunale Militare lo individuò nella comunicazione lesiva dell'altrui reputazione insita nel rapporto informativo, che, essendo sottoposto ad una serie di adempimenti formali, doveva essere conosciuto da più persone, mentre, in relazione alla sussistenza dell'elemento psicologico, valorizzò la coscienza e la volontà con cui l'imputato aveva redatto il rapporto destinato ad essere conosciuto da altri con piena consapevolezza dell'attitudine offensiva delle valutazioni contenute nella scheda, senza che nel contempo rilevassero, non essendo previsto il dolo specifico, le ragioni di rivalsa o diverse per cui l'imputato aveva espresso la valutazione negativa sulla scheda del Barba.
La Corte Militare di Appello, investita dall'appello dell'imputato che aveva dedotto la mancanza degli elementi costitutivi del reato contestato ed in via subordinata aveva chiesto la esclusione della aggravante dell'atto pubblico, con conseguente declaratoria di non doversi procedere per difetto di richiesta, con sentenza in data 1.2.2005 ha confermato il giudizio di responsabilità dell'imputato in ordine al reato così come contestato, rilevando in particolare che le note caratteristiche avevano natura pacifica di atto pubblico in quanto atto preparatorio di un atto complesso destinato ad essere conosciuto da più persone e da diversi enti, nel cui ambito tutti gli atti preparatori avevano la stessa rilevanza, ai fini penali e potevano essere conosciuti anche dall'interessato, essendo venuta meno la antica riservatezza di cui erano dotati tali atti, ma ha ridotto la pena a due mesi di reclusione militare sostituita con la pena pecuniaria di 3.000 euro.
Ha proposto ricorso per cassazione la difesa dell'imputato lamentando, con tre distinti motivi:
- violazione di legge e difetto di motivazione per avere la Corte d'Appello Militare ritenuto che il giudizio valutativo fosse destinato ad essere comunicato a più persone mentre invece era stato diretto in busta chiusa al solo primo revisore, a norma degli artt. 12, 1 comma e 6, 1 comma, del D.P.R. n. 1431 del 1965 e difettando comunque la volontà da parte dell'imputato della diffusione dello scritto di carattere diffamatorio;
- difetto di motivazione e travisamento dei fatti per avere l'imputato usato esclusivamente la fraseologia prevista dal regolamento;
- erronea interpretazione di legge e difetto di motivazione per avere la Corte di merito ritenuto che le note caratteristiche fossero un atto pubblico benché nella specie fossero state modificate dal primo revisore Colonnello Maiella con la conseguenza che l'unico atto che poteva avere rilevanza giuridica e valore probatorio all'interno della Amministrazione era quello del primo revisore. Il Procuratore Generale Militare presso questa Corte ha concluso per l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste, essendo i termini usati nel rapporto previsti dal regolamento per la valutazione delle qualità dei militari e quindi non offensivi.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo, che attiene alla pretesa mancanza del requisito della divulgazione dell'offesa, almeno alla stregua della volontà dell'imputato che avrebbe diretto le note caratteristiche del Maresciallo Barba al Primo Revisore perché restassero nella esclusiva disponibilità di costui, occorre rilevare che, in tema di diffamazione, sussiste il requisito della divulgazione dell'offesa, integrato dalla comunicazione con più persone, non solo quando l'agente prenda direttamente contatto con una pluralità di persone, ma anche quando egli comunichi ad una persona una notizia destinata ad essere riferita almeno ad un'altra persona (v. per tutte Cass. 15.3.1993 n. 2432).
Diverso è ovviamente il caso in cui la comunicazione diretta ad una sola persona sia confidenziale e destinata a rimanere segreta nelle intenzioni dell'autore del fatto, non essendo prevista la ipotesi di diffamazione colposa (v. Cass. 12.2.1999 n. 1794), però nel caso in esame le note caratteristiche non erano certamente una notizia confidenziale, in quanto erano destinate ad essere prese in esame dai revisori, ad essere inserite nel fascicolo personale dell'interessato e ad essere utilizzate anche in futuro da tutti i superiori nelle valutazioni successive, che necessariamente dovevano partire da quelle pregresse ed anche per altri fini di ufficio. L'imputato aveva quindi piena coscienza della propalazione dell'offesa poiché la comunicazione a più persone era in re ipsa nel caso di note caratteristiche redatte dal superiore gerarchico e destinate ad essere comunicate, oltre che all'interessato, a numerose persone e cioè, oltre che immediatamente ai revisori, a tutti coloro che avevano l'accesso al fascicolo della persona offesa. Anche il secondo motivo è infondato.
In tema di reato di diffamazione la sfera morale altrui può essere lesa sia con modalità direttamente ed oggettivamente aggressive del diritto all'apprezzamento e alla opinione altrui, sia con modalità che, oggettivamente non lesive, diventino tali per le forme in cui vengono estrinsecate (v. Cass. 25.6.1985 n. 6383 proprio in relazione al reato di diffamazione militare commesso mediante una opposizione ad un trasferimento deciso dal comando superiore nei confronti di un sottufficiale dei Carabinieri).
A tale proposito non rilevano quindi le parole usate e non interessa neppure che siano state utilizzate espressioni non scurrili, contenute nel quadro dei termini da utilizzare per la valutazione delle singole qualità dei militari, poiché non sono soltanto le espressioni scurrili ad essere diffamatorie, mentre invece possono esserle anche altre espressioni oggettivamente non vere e non obiettive che aggrediscono la sfera del decoro professionale ed addirittura anche mere allusioni subdole, poiché ciò che interessa non sono le parole bensì le forme con cui le offese vengono estrinsecate. E ciò è quanto, appunto, è avvenuto nel caso in esame in cui l'imputato ha gravemente offeso la reputazione del Maresciallo Barba attribuendogli, con espressioni inaccettabili, caratteristiche professionali lesive del suo onore e decoro e completamente false, sia in relazione alla "storia" professionale dell'interessato, sia con riguardo ad un preteso comportamento erroneo che il Barba avrebbe tenuto nel periodo in considerazione, essendo rimasto escluso in tutte le sedi che ciò fosse avvenuto, tanto è vero che al Barba è stata restituita la qualifica di eccellente che aveva avuto in precedenza e che meritava anche nel periodo in considerazione.
Quanto infine al terzo motivo è appena il caso di rilevare che le note caratteristiche attraverso cui è avvenuta la diffamazione militare sono certamente atti pubblici, tali essendo, agli effetti della tutela penale, in cui il concetto di atto pubblico è più ampio di quello desumibile dall'art. 2699 cod. civ., non solo gli atti redatti da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni (quale era certamente l'imputato) ma anche addirittura gli atti interni e quelli preparatori di una fattispecie documentale complessa ed addirittura le dichiarazioni del privato al pubblico ufficiale (v. Cass. 13.8.1998 n. 9358). Nè rileva in proposito che successivamente le note caratteristiche del Maresciallo Barba siano state modificate dal Revisore Colonnello Maiella poiché l'atto pubblico resta tale anche se successivamente modificato o abrogato o revocato, dovendosi altrimenti escludere che esista la diffamazione militare commessa in atto pubblico tutte le volte in cui, a seguito della impugnativa del diffamato, l'atto venga riformato o revocato, il che non pare seriamente sostenibile.
Il ricorso deve essere pertanto respinto perché infondato sotto tutti i profili addotti, con le conseguenze di legge in punto di spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 16 giugno 2005. 

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2005